"La scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza: è un'attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza" - Simone De Beauvoir
LE PRÈFICHE E L’ARTE DEL PIANTO

LE PRÈFICHE E L’ARTE DEL PIANTO

Per comprendere meglio la figura della prèfica, ho pensato fosse il caso di raccontarla insieme al fenomeno della lamentazione funebre che ha rappresentato, almeno fino alla metà del Novecento, la più intensa manifestazione del lutto, narrata soprattutto dalle donne che declamavano doti e virtù del defunto.

La lamentazione funebre, a seconda del luogo dove si svolgeva, assumeva nomi e caratteristiche diverse. Molte sono le società che nei loro riti funebri hanno dato importanza notevole a questa manifestazione del dolore a partire dagli antichi egizi fino al nostro Sud per arrivare in Irlanda ma anche in Albania. Mi limiterò a scrivere solo di alcuni luoghi, in particolare il Sud dell’Italia dove personalmente ho potuto assistere a una di queste funzioni funebri in Calabria quando avevo circa 10 anni e i bambini dovevano presidiare insieme agli adulti in queste occasioni.

In Calabria si definiva “piagnisteo” , in Abruzzo era il “cantaloni”, in Sardegna si parlava di “attittu”, per la Liguria si usava “sgarrire”, in Friuli si diceva “componi”, in provincia di Matera si chiamava “naccarata”, a Napoli era il “riepito” mentre ad Arigliano si chiamava “travaglio”, e rappresentava una manifestazione del dolore con cui i superstiti rispondevano alla perdita di un proprio caro. Nella lamentazione funebre si rievocavano episodi della vita del defunto, i suoi pregi e le sue virtù rappresentando in tal modo il momento più intenso del rito funebre.

Nell’antichità il lamento funebre era tipico delle classi sociali più agiate ma nel corso tempo, con l’avvento soprattutto del Cristianesimo, si trasformò in una funzione legata solo alle classe popolari e, in Italia si diffuse soprattutto nella civiltà contadina, nelle comunità più isolate, nei piccoli centri urbani. Veniva effettuato di solito dalle donne, quasi sempre le più anziane, in genere parenti, amiche e comari che si associavano al lamento o rinnovavano un proprio grande dolore.

Le “préfiche”, questo è il nome con il quale sono più conosciute, hanno anch’esse nomi differenti a seconda della regione nella quale si trovavano: “rèpite” o “chiangimorti” nel Salento e “greca” a Gallipoli; “piagnone” in Piemonte, nelle zone del Cuneese e del Canavese; “piansune” in Lombardia, in alcune zone del Mantovano e del Cremonese; “rèpute” in Molise; “chiangulini” o “chiangitare” in Calabria; in Sardegna erano le “attitadoras”; a Napoli erano le “scapillate” o “chiagnazzare”; nel centro-sud dell’Albania erano chiamate “llahinka” mentre nel nord sono note come “Vajtojca”. Sono molteplici i nomi usati e questo per far capire l’importanza che quese figure hanno rivestito nell’esecuzione delle lamentazioni funebri. Alcune di loro venivano appositamente ingaggiate per piangere durante il rito funebre e accompagnare il dolore patito dalla comunità di fronte al lutto per la perdita di una persona cara, creando un’atmosfera ideale per giungere al superamento del cordoglio.

A volte erano donne che avevano perso figli in guerra o vedove che diventavano prèfiche per dare sfogo a un dolore mai finito e per ricordare la propria perdita. Altre volte erano contadine, casalinghe alle quali veniva dimostrata riconoscenza da parte dei familiari del defunto con donazioni di grano, vino, olio. Queste erano quelle definite “prèfiche professionali”. Ma al di là della connotazione, erano donne che “sapevano piangere bene” per aver patito in prima persona un grave dolore e la ritualità del lamento serviva loro per elaborare il lutto in una dimensione collettiva.

I motivi del lamento erano quasi sempre gli stessi: nel caso della vedova ricordavano i momenti passati insieme al defunto, le sue gentilezze, il suo attaccamento al lavoro e alla famiglia; nel caso di una madre spesso si piangevano i momenti che non ci sarebbero più stati, il sostegno che nella vecchiaia sarebbe venuto a mancare. In alcuni luoghi della Basilicata, durante la veglia funebre, la prèfica cantava l’accaduto nel suo lamento citando il nome della persona che era entrata a fare le condoglianze; enfatizzava anche altri momenti come l’ingresso del prete o il suono delle campane o ancora l’uscita di casa della salma.

Il lamento era accompagnato da gestualità e movimenti ritmici del corpo che avevano lo scopo di evidenziare l’immenso dolore per la perdita. Erano donne che, vestite con abiti scuri e coperte con un velo nero, si recavano presso l’abitazione del defunto e stringendosi intorno alla bara, iniziavano con lo sciogliersi i capelli e intonare una cantilena, diversa a seconda delle condizioni del defunto, invitavano gli astanti a piangere con loro, poi univano al lamento un movimento ritmico e oscillatorio del corpo, aggiungevano infine un movimento molto gestuale delle mani e a volte agitavano un fazzoletto sul morto. Non di rado si strappavano i capelli, si percuotevano fortemente il petto o si graffiavano il volto. Non essendo ben viste dalle istituzioni ecclesiastiche, bramose di eliminare ogni traccia di tradizione culturale, le prèfiche e il loro lamento accompagnavano il defunto fino in chiesa, poi assistevano in silenzio alla cerimonia religiosa, per riprendere dopo la liturgia fino al cimitero. In seguito, là dove era usanza, venivano invitate al banchetto dei parenti del defunto.

Nel Salento il lamento funebre quando qualcuno trapassava, risaliva alla tradizione omerica. Quando le chiangimorti entravano in casa, oltre a rievocare una vita, accompagnavano il caro estinto verso le soglie dell’aldilà con un coro in lingua greca e un balletto di fazzoletti. Canti e lamenti per qualcuno che muore, servivano a consolare i parenti, a liberarli dalle pene del dolore, a farle piangere finchè non si erano svuotati da questo peso. A volte erano strofe che fornivano un ritratto pittoresco della persona defunta, altre volte invece vi era una profonda partecipazione. Nel 1960 Cecilia Mangini, diresse un cortometraggio dal titolo Stendalì (suonano ancora), dedicato ai canti funebri della Grecia salentina che iniziava così: « Qualcuno è morto. Lo annuncia il suono delle campane: le vicine di casa vengono a consolare le madri, le spose o le sorelle e a piangere con loro. E’ la visita funebre. Poi saranno i soli uomini a accompagnare il morto nel cimitero. Intanto le donne, nella casa, continuano il pianto. Il pianto, così regolato e rituale, è una sopravvivenza arcaica in una società che infatti è per molti versi arcaica: la società delle aree depresse, cioè di quasi tutta l’Italia meridionale. In una simile società, oberata da condizioni economiche a volte disumane, la morte sarebbe intollerabile, priva di senso, se il suo dolore disgregatore non fosse contenuto dal rozzo istituto del “pianto”, per cui le informi manifestazioni della disperazione vengono, per così dire, stilizzate. Alcuni canti funebri – questi, per esempio, dei comuni pugliesi di lingue greca – sono tra le più alte forme della poesia popolare.».

Il cortometraggio continuava poi con la voce di Pasolini che si rivolgeva alle madri: «Piangete, madri che avete figli, piangete con tutto il vostro dolore, che vi venga dalle foglie dell’anima che vi abbandonano prima del tempo. Viene la morte che non ci rispetta, che ci ha tutti quanto segnati. Piangete a lutto, tutti voi piccini, piangete grandi, piangete ragazzi, questo fiore ha perduto ogni forza e aveva appena sedici anni. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle tre, quando io vedrò che tu non vieni, correrò a cercarti nell’orto e nel cortile. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle cinque, quando io vedrò che tu non vieni, correrò a cercarti da tutti i parenti. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino alle nove, quando io vedrò che tu non vieni, io perderò ogni speranza e se vedrò che tu non vieni e alle dieci non ti fai vedere, alle dieci sarò divenuta terra, terra, terra da seminarvi. Io ti aspetterò, io, o mio figliolo, io ti aspetterò fino all’anno, e quando io vedrò che tu non vieni, annerirò come fuliggine. E tu, cuore arso, piangi, piangi, urla sempre come un bue selvaggio che al mondo hai perduto ogni luce. Me l’avessi detto tu, figlio mio, che tu stavi per partire, ti avrei preparato un canestro con tutta la tua roba. Chi ti preparerà il vestito quando verrà la domenica? Nessuno di tutti che qui stanno. Tu resterai solo. Chi ti laverà la camicia, figlio mio? Te la laverà la lapide e la terra. E chi te la potrà stirare? Te la stirerà la lapide e la terra. Chi ti sveglierà, figlio mio, quando il giorno sarà alto? Là sotto è sempre un sonno, sempre notte buia.».

In Campania, le scapillate arrivavano vestite di nero, urlando, battendosi il petto, intonando delle vere e proprie filastrocche in onore del defunto e, tirando fuori un fazzoletto bianco, iniziavano una straziante danza intorno alla salma. Queste donne erano solitamente contadine o casalinghe che per questo servizio a volte venivano ricompensate; erano chiamate anche quando il defunto non aveva troppe conoscenze o pochi parenti, così da non fare brutta figura nei confronti di chi andava a visitare la sua salma. In questi casi esse si recavano al capezzale del defunto e poi lo accompagnavano al corteo funebre mostrando dolore e disperazione per la perdita della persona.

In Sardegna le is attittadòras erano delle donne di età variabile, spesso vedove o che comunque avevano avuto esperienze luttuose in famiglia, che facevano la loro comparsa durante la veglia funebre, chiamate subito dopo la constatazione del decesso da parte dei familiari del morto, per partecipare alla veglia scandendo con la loro voce i vari passaggi di un rituale antichissimo e ricco di suggestione. Il loro compito era quello di prendere parte al rito da protagoniste assolute e rappresentavano un l’elemento indispensabile durante la contemplazione del defunto. Accompagnavano il loro ingresso nella casa e si univano al dolore dei familiari con un pianto comune che pian piano iniziava ad assumere la forma di un canto ritmato che si faceva sempre più addolorato. Poi ogni prèfica lodava il defunto fino a intonare insieme una serie di nenie che decantavano le qualità del defunto. Spesso il canto era accompagnato da gesti rituali che prevedevano lo strapparsi i capelli che venivano buttati sul defunto in segno di rispetto e per far sentire al defunto il sincero dolore provato. Il canto delle prefiche assumeva diversi toni e passava da una lenta supplica ad una più vivace e acuta preghiera, tutto in maniera improvvisata. Il rituale funebre cambiava a seconda del tipo di morte che aveva colpito la persona: se si trattava di morte naturale, il canto assumeva un carattere dolce e lodava le doti de defunto; se si trattava di morte violenta il canto era intriso di rabbia e sentimento di vendetta, si passava da parole di elogio del defunto a parole di odio per l’omicida. Lo scopo principale del lamento funebre, otre a quello di lodare il defunto, era soprattutto quello di accompagnarlo nel viaggio che si apprestava a intraprendere e che sarebbe stato lungo e misterioso e proprio per questo necessitava della più profonda condivisione.
A tal proposito voglio citare alcune frasi del libro “La via del male” con le quali Grazie Deledda descrive l’arrivo delle prèfiche durante un funerale: « […] Le prefiche erano due: la balia e una zia del morto; la prima era un piccola vecchia vestita di nero, con due grandi occhi azzurri in un visino bianco e molle; l’altra vestiva con lusso, e la cintura d’argento sul bustino di velluto verde si sprofondava nella sua vita grassa. Questa prefica aveva una bella voce sonora, e godeva fama pei suoi attitidos; finché Maria aveva assistito alla ria le due donne s’erano limitate a ricordare le virtù del morto, le sue nozze recenti, l’infanzia lontana. Ora invece descrivevano la scena orribile della sua morte, la desolazione della vedova; invocavano vendetta e imprecavano contro l’assassino.».

Anche in Albania il lamento funebre ha grande rilevanza e anche qui esistono le prèfiche che fanno del canto una vera e propria esibizione poetica in onore del defunto e della grave perdita subita dalla sua famiglia e dai suoi conoscenti.

Nel nord dell’Albania la differenza la fanno gli uomini che praticano il rito del “Gjama”, del grido mortorio di gruppo, usanza che coinvolgeva solo gli uomini “malësorë” albanesi. Era un rito da organizzare in tutti i particolari come ad esempio il numero dei partecipanti che non poteva essere inferiore a dieci e che cresceva a seconda del rispetto che si doveva al defunto, che con forti urla e grida, disposti in fila oppure in un ordine preciso, accompagnati da determinati gesti per uno specifico ritaglio di tempo, che variava dai venti minuti ad un’ora, annunciavano la morte di una persona nota alla comunità.

Gesti e movimenti accompagnavano le urla; i loro passi, prima per posizionarsi a distanza dal defunto e poi, man mano, per avvicinarsi ad esso; le loro esclamazioni che variavano a seconda dell’età del defunto; i colpi che si davano con i pugni al petto, il graffiarsi il viso fino a sanguinare. Ritualità che hanno accompagnato la tradizione albanese fino al 1945, quando il rito del “Gjama”, il grido o lamento mortorio maschile, tipico delle Grandi Montagne albanesi, iniziò ad essere proibito dal regime dittatoriale di Enver Hoxha, perchè considerato un rito collegato allo status vivendi dell’arretratezza culturale popolare.

Concludo questo racconto su queste affascinanti donne, con una frase di Ígor Stravinskij: «Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente