"La scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza: è un'attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza" - Simone De Beauvoir
IMPRESSIONI DI FOLLIA

IMPRESSIONI DI FOLLIA

ANNA KAVAN – Di notte

Come passano lenti i minuti nella notte d’inverno: eppure le ore in se stesse non sembrano così lunghe. L’orologio della chiesa sta battendo di nuovo l’ora con la sua monotona voce campagnola, che sembra istupidita dal freddo. Resto sdraiata a letto, e come un prigioniero ben addestrato, come un abituée, mi rassegno alla sensazione familiare dell’insonnia. È una routine che conosco fin troppo bene.

Il mio carceriere è qui nella stanza con me, e non può accusarmi di essere ribelle o fastidiosa. Resto sdraiata, immobile, come se il letto fosse la mia bara, non voglio attirare la sua attenzione. Forse se non mi muovo per un’ora intera mi permetterà di dormire.

Naturalmente non posso accendere la luce. La stanza è buia come una scatola foderata di velluto nero lasciata cadere da qualcuno in un pozzo gelato. Tutto è tranquillo, tranne nei momenti in cui le ossa della casa scricchiolano nel gelo o un cumulo di neve scivola dal tetto con un rumore simile a un sospiro soffocato. Apro gli occhi nell’oscurità. Ho le palpebre rigide come se le lacrime si fossero congelate in brina. Se solo potessi vedere il mio carceriere non starei così male. Sarebbe un sollievo anche solo sapere da dove mi sorveglia.

Da principio mi immagino che stia ritto come una tenda scura vicino alla porta. Il soffitto viene tolto dalla stanza come se fosse il coperchio di una scatola e lui giganteggia, più alto di un olmo, giganteggia verso le montagne gelate della luna. Ma poi mi sembra di essermi sbagliata e che lui sia accovacciato sul pavimento, molto vicino.

Mi hanno stretto una sbarra di ferro intorno alla testa, e proprio in questo momento il carceriere batte il metallo freddo con un colpo sonoro che infila aghi di dolore nelle mie orbite. Sta mostrando la sua disapprovazione per la mia curiosità; o forse sta solo cercando di ribadire la sua autorità su di me. Comunque, mi affretto a richiudere gli occhi, e resto sdraiata immobile, sotto le coperte, osando appena respirare.

Per tenere occupata la mente comincio a passare in rassegna le formule che mi ha insegnato il medico straniero che ebbe i primi sospetti su di me. Ripeto a me stessa che non esistono vittime dell’insonnia, che resto sveglia solo perché preferisco continuare a inseguire i miei pensieri. Cerco di immaginarmi nei panni di un neonato, senza futuro e senza passato. Se il carceriere guardasse nella mia mente adesso, non potrebbe sollevare obiezione alcuna su quello che sta succedendo, credo. Il viso del medico olandese, sottile, affilato e duro come la faccia di un lupo di mare, mi passa davanti agli occhi. Improvvisamente un gallo canta vicino a me, un suono fantastico, ultraterreno, in questo mondo ancora chiuso nell’oscurità e nel gelo. Il canto del gallo fiorisce di colpo in tre lingue di fiamma, un giglio infuocato che si schiude brevemente nel campo nero della notte.

Adesso sto quasi per addormentarmi. Ho il corpo rilassato, i pensieri cominciano a sovrapporsi. I miei pensieri sono diventati fasci di alghe, senza nessun colore particolare, che dondolano lentamente in un’acqua altrettanto priva di colore.

La mano sinistra si contrae e sono di nuovo sveglia. Il rintocco dell’orologio della chiesa mi ha riportato alla presenza del mio carceriere. Ho contato quattro colpi o cinque? Sono troppo stanca per saperlo con sicurezza. E comunque la notte finirà presto. La sbarra di ferro intorno alla mia testa si è stretta ed è scivolata giù, fino ai globi degli occhi. Eppure il dolore sembra emanare da qualche parte dentro il cranio, dalla corteccia cerebrale piuttosto che da questa pressione crudele: è il cervello stesso che duole.

Improvvisamente mi sento disperata, oltraggiata. Secondo quali leggi sono stata processata e condannata, a mia insaputa, e a una pena così grave, per di più, senza sapere nemmeno di che cosa o da chi sono accusata? La voglia selvaggia di mettermi a protestare, di chiedere un’udienza, di rifiutare di sottomettermi oltre a una tale ingiustizia, mi afferra.

Ma a chi ci si può appellare quando non si sa nemmeno dove sia il giudice? Come si può sperare di provare la propria innocenza quando non si è accusati? No, non c’è giustizia per gente come noi al mondo: tutto quello che possiamo fare è soffrire il più coraggiosamente possibile e costringere i nostri oppressori a vergognarsi.