Non si può parlare delle brigantesse senza prima sinteticamente illustrare la storia del brigantaggio durante il periodo post unitario. Nel febbraio del 1861, con la caduta di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa di fatto di esistere a favore dell’Italia unita. Francesco II, ultimo re di Napoli, insieme alla sua corte si trasferiscono in esilio presso lo Stato Pontificio accolti dal Papa, loro tradizionale alleato. Il re non smetterà mai di credere in un suo ritorno sul trono e questa speranza è fomentata, oltre che dalla solidarietà di numerose dinastie europee, anche dalle notizie che arrivano e che evidenziano le difficoltà che il nuovo stato sta incontrando nel radicalizzarsi nel Mezzogiorno.
Dovunque nei territori dell’ex regno, sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare la popolazione contro i piemontesi, che riaccendono i fuochi della ribellione contadina. Garibaldi aveva promesso qualcosa di inaspettato: riconosceva gli usi civili delle terre agli abitanti dei paesi, aboliva la tassa sul macinato e dimezzava il prezzo del sale. Ma queste promesse non furono mai mantenute dal nuovo governo che anzi, oltre a reintrodurre la tassa sul macinato, introdusse anche la coscrizione obbligatoria e continuò a sostenere situazioni di sopraffazione da parte delle classi dirigenti locali nei confronti dei più poveri.
L’esercito borbonico, che per molti giovani aveva rappresentato uno sbocco occupazionale, era stato disciolto e il nuovo esercito non accoglieva questi militari nelle sue fila che spesso venivano dichiarati disertori a loro insaputa. Contadini senza terra delusi, soldati senza esercito sbandati, evasi dalle carceri borboniche pronti a tutto, briganti che conoscono i luoghi, insieme all’acutizzazione della rabbia nei confronti di un esercito di occupazione straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere e che risponde a un re straniero, portano queste persone a scegliere la macchia e a diventare una sorta di esercito irregolare.
Le truppe piemontesi si trovano a combattere con un nemico invisibile, cadono in imboscate tese dai briganti, non sanno muoversi in quei territori e non hanno la popolazione dalla loro parte. Alla violenza rispondono con la violenza fino a quando il governo, vista la gravità della situazione, decide di adottare la legge Pica che, oltre ad altre scempiaggini, prevede la fucilazione sul campo degli arrestati e lo stupro delle donne dei ribelli.
In questo contesto matura la storia delle brigantesse che è storia di donne straordinarie che hanno scelto questa strada per svariate ragioni: ideali politici, amore, fuga da situazioni familiari invivibili, terrore del carcere, rancore o desiderio di vendetta. Una volta datesi alla macchia, condivisero con gli altri briganti la loro movimentata esistenza prendendo parte attiva alle azioni militari che venivano intraprese e distinguendosi per coraggio, livore e durezza.
É difficile attribuire una data d’inizio al brigantaggio femminile ma una delle prime donne che merita di essere raccontata è sicuramente FRANCESCA LA GAMBA, nata a Palmi nel 1768 e attiva durante il decennio di occupazione francese (1806-1816). Francesca era una giovane donna che lavorava presso le filande che i fratelli Caracciolo avevano iniziato a impiantare nel territorio calabrese a partire dal XVIII sec.. All’età di 18 anni decide di sposarsi con Saverio Saffioti, con il quale ebbe due figli, Domenico e Carmine, ma restando presto vedova decide di convogliare in seconde nozze con Antonio Braguglia di Bagnara, paese dove Francesca si trasferirà dando alla luce Rosa. Francesca ha quasi 40 anni ma è ancora una donna piacente e in paese non passa inosservata. Di lei si invaghì un ufficiale al servizio dei francesi che non abituato a sentirsi negare qualcosa, prende il diniego di Francesca come un affronto tanto da vendicarsi facendo arrestare prima il marito per traffico illecito di armi, e poi i due figli, ancora adolescenti, per tradimento. Domenico e Carmine, dopo un processo sommario, furono condannati alla fucilazione; il padre per la rabbia e il dolore morì poco dopo lasciando Francesca da sola con il suo dolore. Questo dolore si trasformò presto in sete di vendetta e così Francesca abbandonò tutto e si unì a una banda di briganti che aveva la sua base sui Piani della Corona. Combatteva insieme a loro con coraggio e tenacia e per questo meritò la stima, l’ammirazione e il rispetto degli stessi briganti, tanto da diventarne presto la loro capobanda, meritando l’appellativo di “Capitanessa”. Le sue azioni nascevano soprattutto dalla necessità di combattere gli oppressori francesi e questa carica era ciò che ispirava il resto della banda. Fu proprio durante uno scontro con i francesi che la Capitanessa riuscì a mettere in atto il suo progetto di vendetta: unendosi ad altre bande di briganti accerchiarono i francesi e sferrando un contrattacco catturarono molti prigionieri. Tra di loro c’era anche l’ufficiale che aveva fatto giustiziare i suoi figli, ferito e incapace di reagire quando, portato davanti a Francesca, venne da lei stessa ucciso e fatto a pezzi. Nonostante la sua fame di vendetta era stata saziata, Francesca continuò a combattere i francesi, che non smise mai di odiare, tanto che all’arrivo in Calabria del Principe d’Assia offrì i suoi servizi e quelli della sua banda. Dopo la partecipazione alla battaglia di Mileto, molti briganti divennero soldati dell’esercito borbonico mentre sembra che l’ultima battaglia combattuta da Francesca sia stata quella che si è svolta durante l’assedio di Genova nel 1812, per liberarla dai francesi. Di lei non si è saputo più nulla anche se molti studiosi sostengono che, cinquantenne, si era ritirata nella sua Palmi vivendo nell’assoluto anonimato.
Sempre nel periodo di occupazione francese si svolge la storia di NICCOLINA LICCIARDI, una donna che oggi definiremmo vittima di violenza, che ha cercato la sua forza nel suo compagno per capire alla fine che quella forza lei l’aveva già dentro di se. La storia di Niccolina è legata a quella del brigante Bizzarro, un uomo che durante una scorreria a Seminara, la rapisce trascinandola con lui alla macchia. Come spesso accadeva in situazioni del genere, Niccolina si innamorò del suo rapitore con il quale ebbe un figlio. La vita di fuggiaschi non era facile, erano costretti a spostarsi frequentemente per evitare di essere scoperti e catturati. Fu proprio durante una di queste fughe, proprio mentre il bambino scoppiò in un violento pianto tra le braccia di Niccolina, che Bizzarro, per evitare di essere preso dall’esercito che si aggirava nei dintorni, strappò dalle braccia della madre il bambino e lo scaraventò contro una roccia frantumandogli il cranio. Niccolina non versò neanche una lacrima ma iniziò a scavare una buca all’interno della grotta, dove depose il corpicino del bimbo che vegliò per evitare che animali selvatici si avvicinassero. Quando capì che era arrivato il momento, e mentre Bizzarro dormiva, prese il fucile del brigante e puntatolo alla testa fece fuoco uccidendolo all’istante. Decapitato il brigante, portò la sua testa al governatore di Catanzaro e incassata la taglia che era stata messa su Bizzarro, ritornò sui monti facendo perdere le sue tracce.
Non di rado le donne diventavano brigantesse per amore, ed è quello che è successo a MARIA CAPITANO, giovane guerrigliera, compagna del capobanda Luongo di cui si era innamorata quando aveva 15 anni e Luongo era un operaio delle ferrovie. Quando il nuovo governo introdusse le nuove regole, Luongo fu costretto alla latitanza perché non volendo far parte dell’esercito venne considerato disertore. Maria lo seguì nella sua latitanza, consumando le “nozze rusticane” e partecipando a parecchie azioni della banda, fungendo anche da carceriera per alcuni ostaggi. Un giorno, durante uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine, Maria viene catturata e processata per brigantaggio. L’intervento di suo padre, che pagò i testimoni perché sostenessero che la figlia era stata costretta con la forza a seguire il brigante Agostino Luongo, prosciolse Maria da questa accusa. Trascorsi pochi giorni, Maria tornò alla macchia ma poco tempo dopo, durante un nuovo scontro a fuoco con i carabinieri, Luongo rimane ferito a morte. Maria prende il comando della formazione giurando vendetta; muovendosi con abilità tra boschi, campagne e zone montuose impervie, continua a combattere le truppe impegnate nella repressione al brigantaggio arrecando gravi perdite. L’11 marzo 1868, durante uno scontro durato parecchi giorni, Maria venne circondata e catturata. Questa volta l’intervento del padre fu inutile perché Maria, in attesa del processo, si tolse la vita ingerendo del vetro.
Storia diversa e per alcuni aspetti contraddittoria, è quella di FILOMENA PENNACCHIO, nata a Caselvecchio di Puglia nel 1845. Filomena aveva sposato giovanissima, un maturo impiegato della cancelleria di Foggia che subito dopo il matrimonio si rivelò violento e gelosissimo. Dopo anni di soprusi e sopraffazioni, durante una delle ennesime scenate da parte del marito, Filomena sfila lo spillone che aveva nei capelli e lo conficca nella giugulare del marito lasciandolo in una pozza di sangue. Per sfuggire all’arresto e potersi nascondere, vende tutto ciò che ha e si dirige sui monti unendosi alla banda di Giuseppe Schiavone divenendo con il tempo la sua compagna. Filomena condivise con Giuseppe e il resto della banda la latitanza, percorrendo le macchie della Baronia e compiendo con loro furti di bestiame, sequestri di persona e altre pericolose scorrerie. Con le sue azioni, Filomena si conquistò la simpatia e il rispetto della banda, fino a guidarla in prima persona uccidendo e commettendo atti di inaudita ferocia. Prese parte attiva all’eccidio dei soldati che ebbe luogo a Sferracavallo nel 1863, incitando a gran voce gli uomini della banda e calpestando i corpi dei soldati con gli zoccoli del suo fedele cavallo. La sua crudeltà si trasformava quando si trattava di curare i feriti, sia che fossero uomini della banda che persone sequestrate. Pare sia stata la gelosia della precedente compagna di Schiavone, Rosa Giuliani, a tradire quest’ultimo consentendo il suo arresto e quello del resto della banda, compresa Filomena che era incinta, che in seguito a processo furono condannati a morte. Anche Filomena tradì il suo uomo per avere uno sconto di pena, ma pagò comunque a caro prezzo le sue colpe con anni di lavori forzati nelle carceri piemontesi. Durante gli anni di reclusione, imparò a fare la sua firma e a fare di conto, lei che non era stata altro che un’analfabeta. Uscita dal carcere non tornò a Baronia ma sposò un ricco borghese torinese divenendo una benefattrice riconosciuta e morendo lontana dalla sua terra.
Sempre di gelosia è intrisa la storia di MARIA OLIVERIO “CICCILLA”, nata a Casole Bruzio nel 1841 e sposa di Pietro Monaco all’età di 17 anni, con il quale si trasferisce a Macchia, piccola frazione del comune di Spezzano Piccolo. Pietro era un ex soldato borbonico ed ex garibaldino che, incolpato di aver commesso un omicidio, si da al brigantaggio per evitare la cattura. Maria non lo segue nella sua latitanza, sceglie di rimanere nel paese, dove vive insieme alla suocera e alla cognata, accontentandosi di vedere Pietro le rare volte che scendeva dai monti o quando lui la invitava ad incontri furtivi in luoghi che lui stesso gli indicava. Nel 1862, senza aver commesso nessun reato, Maria viene arrestata insieme alla sorella Teresa, che si diceva essere da sempre l’amante di Monaco, e condotta nelle carceri del Convento di San Domenico. L’idea era quella di far costituire Monaco al fine di ricattarlo e fargli uccidere dei briganti filoborbonici, ma questo non accadde. Maria resterà reclusa per oltre 40 giorno, mentre Teresa verrà scarcerata prima e, forte della sua posizione, si prodigherà a diffondere in paese notizie calunniose circa il comportamento che Maria teneva in carcere. Una volta uscita di galera, Maria si trova circondata di paesani che la scrutano, la guardano male, la giudicano. Cerca di rivedere suo marito latitante da parecchi mesi e riesce a incontrarlo poco fuori Macchia; Pietro però non sembra contento di vederla e prova a spararle ma non riuscendo a colpirla si avventa su di lei con un coltello. Maria riesce a sfuggire alla furia omicida di Pietro ma, non potendo tornare a casa per paura che il marito la cerchi anche lì, si rifugia a casa della sorella Teresa. Durante la notte le due sorelle litigano, vengono alle mani e poi passano alle armi bianche. Maria afferra l’ascia che si trova poggiata vicino al camino e la sferra con violenza su sua sorella. 48 sono i colpi che colpiranno Teresa che morirà in una pozza di sangue poco dopo. Con estrema lucidità Maria sveglia i nipoti, che dormono nella stanza accanto e, una volta vestiti, li accompagna dalla suocera dicendole di accudirli. Si da alla macchia e si reca sui monti alla ricerca della banda di Monaco alla quale si unisce dopo aver raccontato al marito quello che aveva fatto. Monaco non può fare altro che tenerla con se. La carriera della brigantessa Ciccilla, inizia nel 1862 e si conclude nel 1864, quando i bersaglieri la catturarono a Caccuri. Durante questi due anni, Ciccilla compì insieme alla banda di Monaco diverse azioni, alcune particolarmente crudeli. Accumula 32 capi d’imputazione tra cui omicidio, rapine, estorsioni, danneggiamenti, uccisioni di animali e altro ancora. Riconoscerà solo l’omicidio della sorella, per le altre imputazioni dirà di essere stata costretta a delinquere dal marito e dal resto della banda. Di fatto Ciccilla in quei due anni era stata anche il loro capobanda guidando spesso in prima persona azioni pericolose che le fecero guadagnare il rispetto e la stima dei briganti. Nel 1863, Monaco rapisce due cugini appartenenti alla famiglia Mazzei, ricco possidente e patriota. I due vengono liberati dopo il pagamento del riscatto richiesto ma Monaco, non contento, rapisce altri nove notabili ad Acri, tra i quali il vescovo di Tropea, Filippo Maria De Simone, che si trovava a domicilio coatto ad Acri percéè antigovernativo e quindi ritenuto filoborbonico. Per i potenti del luogo ormai la misura è colma, Monaco sta diventando un problema per loro che fino ad allora lo avevano protetto. Ordiscono così di farlo fuori e corrompono il suo braccio destro e luogotenente, Salvatore De Marco, il quale nella notte del 23 dicembre 1863, con la complicità di altri due componenti della banda, spara un colpo al cuore al suo capobanda uccidendolo e ferendo Ciccilla che dormiva al suo fianco. Maria riesce a fuggire insieme agli altri fedeli della banda e con loro continua a spostarsi compiendo scorrerie varie fino a quando, durante una imboscata, viene catturata dopo un combattimento durato due giorni e l’uccisione di due militari e un guardiaboschi. Maria viene condannata al patibolo ma la pena verrà convertita in ergastolo. Le sue tracce si perdono qui, dopo il processo tenutosi a Catanzaro e che confermò la pena. La figura di Ciccilla venne studiata da Cesare Lombroso e la sua storia venne raccontata da Alexandre Dumas sulle pagine del giornale L’Indipendente.
Contrariamente a quanto si possa pensare, anche in Sardegna ci furono figure di brigantesse che vale la pena ricordare. Una su tutte MARIA ANTONIA SERRA SENNA “SA REINA”, che a Nuoro viene ricordata come colei che ha segnato la storia sarda di fine Ottocento. Maria Antonia era nata in una famiglia molto povera. Suo padre aveva alcune pecore la cui produzione non bastava neanche a sfamare la famiglia; i due fratelli, Giacomo ed Elias, pur di sottrarsi a questa povertà, si diedero al furto di bestiame motivo per cui furono anche arrestati. Siamo alla fine del 1800, l’esercito viene inviato in Sardegna allo scopo di annientare definitivamente la piaga del brigantaggio. Usciti dal carcere, Elias e Giacomo si danno alla latitanza nell’entroterra sardo, proseguendo la loro attività di dominio sul territorio e vendetta verso i loro accusatori grazie alla collaborazione di Maria Antonia. Formidabile amministratrice dei beni di famiglia che negli anni si erano accumulati, era anche la mente organizzatrice di furti, omicidi e vendette protratti dai fratelli; grazie alle estorsioni i Serra Sanna passarono da poveri pastori a ricchi proprietari di terreni, case e capi di bestiame. Il metodo di Maria Antonia consisteva nel far visita alle persone e chiedere, a nome dei fratelli, piccoli favori o armi, munizioni, soldi, bestiame, che non potevano essere rifiutati vista la nomea dei Serra Sanna, ma per i quali Maria Antonia rilasciava regolare ricevuta. Lei non fu mai latitante, in paese e nei dintorni era riverita da tutti e temuta per il suo potere e la sua indubbia determinazione. Fungeva da contatto tra la realtà del paese e la latitanza dei fratelli i quali erano così costantemente informati su tutto non ultima la caccia che il governo stava organizzando per combattere il brigantaggio. La notte tra il 14 e il 15 maggio, passata alla storia come la “notte di San Bartolomeo”, l’intera Barbagia venne posta sotto assedio dall’esercito con l’intento di privare i latitanti di ogni favoreggiatore, sperando così di costringerli allo scoperto e catturarli. Circa 600 persone furono arrestate e tra queste anche Maria Antonia insieme al padre. Lei fu condannata a 20 anni di reclusione, ridotti a 18 che trascorse nella prigione di Nuoro, dove accolse la notizia della morte dei fratelli, avvenuta in uno scontro con l’esercito a Morgogliai, chiudendosi per molti anni nel suo dolore e nella sua disperazione. Uscì di prigione ormai cinquantenne e si sposò con il fratello di una sua compagna di cella, cadendo nell’oblio dimenticata da tutti.
Ritroviamo ancora in Sardegna la prima brigantessa acculturata e ribelle di cui si ha memoria: LUCIA DELITALA TEDDE, nata a Nulvi il 29 maggio 1705, da una delle famiglie più importanti della nobiltà sarda, divenuti ricchi grazie anche ad attività poco lecite quali il contrabbando e il brigantaggio. La Sardegna in quel periodo era soggiogata da bande di malviventi che minacciavano la quiete dei paesini ma, soprattutto, non nascondevano l’intenzione di sopraffare lo stesso governo il quale, per contrastare questo fenomeno, aveva adottato una serie di misure quali l’istituzione di un corpo militare itinerante, il ripopolamento di alcune zone della Sardegna disabitate “importando” persone dal continente che avrebbero dovuto fungere da deterrente per l’insediamento dei briganti, la chiusura dell’Università di Sassari e l’eliminazione di ogni traccia della precedente dominazione spagnola durata 400 anni. L’attuale governo piemontese appare straniero e avido e per questo, agli occhi di molti. i briganti appaiono come liberatori e difensori dei diritti. Molti latitanti riparano in Corsica, altri decisero di restare nascondendosi sui monti in attesa di tempi migliori. Lucia, incoraggiata dal padre, fece sua la battaglia di cacciare il governo e liberare la sua terra. Radunò un gruppo di uomini armati per assalire le truppe sabaude, di cui era acerrima oppositrice perché convinta filo spagnola, trovando in Giovanni Fais, capo di una banda che si vantava di lottare contro l’autorità piemontese, un valido amico e alleato. Le due bande si unirono formando un vero esercito di campagna capace di tenere sotto scacco tutta la zona nord della Sardegna. Lucia condivise la latitanza anche con la moglie di Fais, Chiara Unali, e con la figlia Mattea. Spesso le due donne seminavano terrore nelle truppe regie con la loro irruenza e il loro coraggio, ma Lucia nonostante i successi che ottiene, inizia a maturare l’idea di abbandonare ciò che stava facendo per dedicarsi completamente a combattere l’esercito occupante. Intanto molti suoi uomini furono catturati, altri vennero impiccati, altri ancora subirono la tortura della lingua strappata. Anche Giovanni Fais rischiò la stessa sorte ma l’intervento tempestivo di Lucia, insieme ad alcuni suoi fedeli uomini, lo trasse in salvo insieme a Chiara e Mattea. Altre volte Lucia salvò Fais da situazioni pericolose e tutti questi massacri ai quali ogni volta assisteva, la convincevano sempre più a comportarsi da patriota contro gli invasori e nonostante il commissario governativo stesse facendo arrestare parte dei suoi fedeli. Secondo Lucia bisognava ostacolare il governo piemontese a favore degli spagnoli e dei francesi, ribellandosi a un regime che era stato incapace persino di porre ordine in una terra dove i banditi potevano contare su protettori locali, tra i quali si trovavano spesso uomini del governo stesso. Queste situazioni ambigue a Lucia non piacevano ed erano contro i suoi ideali di libertà. Lo stesso non si poteva dire delle due famiglie, i Delitala e i Taddei, di cui Lucia faceva parte ma che non onorò della sua presenza quando, il 4 aprile 1738, il padre gesuita Vassallo, convocò nella chiesa di Nuevi i capi delle due fazioni, per convincerli di cessare le ostilità e convincerli alla pace che fu sancita con il bacio della pace. Di Lucia non si seppe più nulla ma molti pensarono che si fosse rifugiata in Corsica e che il suo patrimonio fosse stato lasciato al collegio gesuitico al quale apparteneva padre Vassallo, fautore della pace tra due famiglie che per politica o per sete di potere o per vendetta, avevano seminato terrore e malvagità nelle terre di Sardegna.
Fautrici di azioni ribelli e illecite, a volte particolarmente violente ed efferate, arrivarono perfino a comandare in prima persona una banda, a maneggiare armi da taglio e da fuoco, a pretendere e prelevare riscatti, a estorcere denaro o altri possedimenti. Donne in cui possono leggersi le ragioni che hanno indotto tranquille popolane a trasformarsi in vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti e il loro disprezzo per gli affetti feriti; la gelosia; la voglia di potere; l’amore; la paura. Hanno lasciato un alone di mistero nei luoghi dove hanno vissuto e le loro vite sono state cantate nelle canzoni popolari e nelle ballate profane, ripercorse nell’immaginario di studiosi e letterati che ne hanno romanzato le vicende in drammi e novelle. La ricostruzione delle loro storie, testimonia da un lato la capacità che hanno avuto di sopravvivere alla repressione dello stato e della chiesa e, dall’altro, l’autonomia e l’indipendenza conquistate nei comportamenti e negli intenti. La loro esistenza si è spesso consumata nell’indifferenza quando non nel disprezzo.
Le brigantesse sono donne che hanno svestito i panni della rassegnazione per indossare quelli della fierezza e della ribellione per placare l’ansia di libertà e riappropriarsi del proprio essere.