Petilia Policastro, 24 aprile 1974 – Milano, 24 novembre 2009
“Di me si ricorderanno quando non ci sarò più“
Lea Garofalo all’avvocata Enza Rando
Lea Garofalo nasce a Petilia Policastro, in provincia di Crotone e rimane orfana, a meno di un anno, a causa di una faida che, oltre ad aver portato alla morte del padre, condurrà suo fratello Floriano e lo zio a perpetrare la vendetta che si concluderà con l’omicidio dei fratelli Mirabelli.
La sua è una famiglia ‘ndranghetista(*) appartenente al clan Convirati-Garofalo-Cosco, noto come “’ndrina Convirati”. Sua nonna continua a ricordarglielo dicendole che “il sangue si lava con il sangue”, frase che Lea sentirà rimbombare nella sua testa per molto tempo.
Fin da piccola si abitua ad un contesto familiare dove i valori che le vengono insegnati sono diversi da quelli di tutte le altre famiglie. Vive segregata in un ambiente fatto di vendette, violenza e sangue. Sognare una vita diversa è proibito come lo è anteporre il bene personale a quello della famiglia.
Appena tredicenne si innamora di Carlo Cosco, un ragazzo di 17 anni che a Milano, insieme alla famiglia Carvelli, gestisce il traffico di droga, in particolare nella zona di Quarto Oggiaro, per conto della famiglia Garofalo. Decide di seguire Carlo a Milano con la speranza di lasciarsi indietro la vita che aveva fatto in Calabria, ma presto si rende conto che la nuova vita non è tanto diversa dalla vecchia: stessi traffici, stesse persone e la difficoltà di trovare il proprio spazio.
La casa dove abita è in Via Montello, dove la famiglia Cosco, tra le varie attività che ha, subaffitta case illegalmente a immigrati regolari e non.
A diciassette anni rimane incinta e nel 1991 nasce Denise, che cresce in questo ambiente fino a quando, in seguito all’arresto di Carlo nel 1996, nel corso dell’operazione “Storia infinita”, che porterà all’arresto di 60 persone e allo smantellamento della cosca Mingacci-Garofalo, durante una visita al compagno in carcere, Lea gli comunica l’intenzione di andarsene da casa insieme a Denise e trasferirsi in un altro luogo, lontana da certi ambienti, per dare la possibilità alla figlia di sognare, di essere felice. Carlo la aggredisce con una violenza tale che devono intervenire le guardie penitenziarie a sedare la situazione. Ma Lea aveva già fatto la scelta coraggiosa di distaccarsi dal suo compagno e anche dalla sua famiglia; si era già organizzata e insieme alla figlia si trasferisce a Bergamo, dove non conosce nessuno e nessuno la conosce e dove forse può iniziare una nuova vita. Per Carlo e la sua famiglia questa decisione è inaccettabile e soprattutto umiliante, in particolare per Carlo davanti ai suoi compagni di cella. Lea non poteva rifiutarsi di portare Denise ai colloqui e questo anche Floriano lo sapeva e lo condivideva. Per questa ragione rintraccia Lea a Bergamo e, per ricordargli a chi appartiene, le brucia la macchina parcheggiata sotto casa. Lea decide di tornare a Petilia Policastro ma anche qui viene aggredita dal fratello che le ribadisce che non accetta la sua scelta di non portare Denise ai colloqui con Carlo.
Durante quei giorni, ripercorrendo la sua vita e quello che lei desiderava, guardandosi adesso e pensando al futuro di Denise, decide di rivolgersi ai carabinieri per denunciare, diventando così una testimone di giustizia. Per le due donne inizia un periodo caratterizzato dal completo anonimato e da continui spostamenti in residenze protette che vanno da Ascoli Piceno a Fabriano e poi a Udine Firenze, Boiano. Intanto a causa delle scelte fatte dalla sorella, Floriano Garofalo viene ucciso e nello stesso periodo, Carlo Cosco esce dal carcere. La morte di Floriano fa ritenere ai magistrati che il momento di pericolo per le due donne sia ormai finito e che l’apporto dato da Lea non era significativo in quanto ritenuta collaboratrice non attendibile. Lea e Denise sono estromesse dal programma di protezione testimoni ma Lea si rivolge prima al TAR, che conferma la revoca, e poi al Consiglio di Stato, fino a quando nel 2007, durante una conferenza dell’associazione “Libera”, Lea incontra Don Luigi Ciotti, Presidente di Libera, che le dà il contatto dell’avvocata Enza Rando. Il suo intervento fa sì che Lea e Denise vengano riammesse nel programma di protezione, come collaboratori di giustizia ma non come testimone, per uscirne dopo quattro anni su richiesta della stessa Lea, stanca di fare sacrifici senza ottenere nessun risultato giudiziario e senza avere più disponibilità economiche per il sostentamento.
Ancora una volta Lea decide di tornare in Calabria, non prima però di essersi messa in contattato con la sorella, per chiederle che sia garantita la sua sicurezza e quella di Denise da Carlo e la sua famiglia. Carlo acconsente e addirittura propone loro di trasferirsi a Campobasso dove lui ha un appartamento che può prestarle in modo che Denise possa riprendere gli studi. La sua però è una trappola e Lea lo scoprirà quando Carlo chiama un tecnico per far riparare la lavatrice che si è rotta e quello che si presenta è un sicario, Massimo Sabotino, incaricato di prelevare Lea che viene aggredita e che solo la presenza di Denise in casa salva bloccando il tentativo di rapimento. In seguito, grazie alle intercettazioni ambientali in carcere si scoprirà che a Massimo Sabotino erano stati promessi venticinquemila euro e una parte di cocaina per il rapimento e che era già pronto un furgone con i fusti di acido per sciogliere il corpo di Lea.
Dopo qualche mese Lea si reca a Firenze per testimoniare a un processo che la vede imputata del reato di lesioni ma l’udienza viene rinviata. Disperata chiama Carlo per chiedergli di contribuire al mantenimento della figlia e quando lui le propone di salire a Milano, così Denise potrà anche salutare i parenti mentre loro discuteranno del futuro della figlia, Lea decide di fidarsi e accetta, nonostante l’avvocata Enza Rando le sconsiglia di raggiungere Carlo.
A Milano l’atmosfera sembra essere cambiata, i vecchi rancori passati. La sera del 24 novembre 2009, la situazione si stravolge completamente. Carlo accompagna Denise a far visita a cugini e zii, dicendo che così loro due avranno la possibilità di parlare da soli. Con una scusa conduce Lea in un appartamento in Corso Sempione, che si era fatto prestare per la serata, dove la picchia violentemente fino a strangolarla. Sotto casa lo aspettano Vito Cosco, Carmine Venturino e Massimo Sabatino che hanno il compito di occuparsi del corpo di Lea. Dopo essersi cambiato, Carlo si reca a prendere Denise, e quando lei si accorge che Lea non c’è inizia a fargli una serie di domande, gli chiede dove sia la madre, come mai non è con lui. Sbrigativamente Carlo comunica a sua figlia che la madre gli ha chiesto dei soldi ed è andata via abbandonandola.
Denise non crede alle parole del padre e, dopo averla cercata nei posti in cui era stata con lei nel pomeriggio, decide di andare dai Carabinieri per denunciare la scomparsa della madre, dove l’atteggiamento sbrigativo del padre per la disperazione della figlia vengono subito notati e portano a un’immediata apertura delle indagini. I Carabinieri chiedono a Denise di continuare a stare con il padre, fingendo di credere alla sua versione, in modo da poter raccogliere più prove possibili.
Carlo incarica Carmine Venturino della sorveglianza della figlia ma non ha considerato che la frequenza tra i due sta per sfociare in un sentimento amoroso. I due si fidanzano e le indagini proseguono fino a portare nel 2010 all’arresto di Carlo Cosco, dei suoi fratelli e di altri componenti della ‘ndrina. Il 6 luglio 2011 inizia il processo che si conclude con la condanna all’ergastolo in primo grado di Carlo Cosco, Giuseppe Cosco, Vito Cosco, Rosario Curcio, Sabatino Massino e Carmine Venturino.
La situazione cambia quando, per amore di Denise, Carmine Venturino decide di confessare ai magistrati la verità sull’omicidio di Lea Garofalo sostenendo che quell’omicidio aveva il benestare della cosca la quale si sentiva disonorata dal gesto di Lea, per avere lasciato il marito quando era in carcere, sovvertendo regole che esistono da sempre nelle famiglie ‘ndranghetiste.
Nel 2013 si apre il secondo grado di giudizio del processo a Carlo Cosco, il quale ammette l’omicidio di Lea salvando i suoi complici e il proprio onore. Da parte sua Venturino, durante la sua deposizione, decide di far sapere a Denise come sono andate realmente le cose: quella sera erano stati allertati da Carlo dell’omicidio di Lea e di ciò che avrebbero dovuto fare. Racconta in che stato era ridotto il corpo di Lea nell’appartamento di Corso Sempione, come hanno trasportato il cadavere fino al terreno di San Fruttuoso e di come avevano provveduto a distruggere il cadavere.
Il processo si conclude con l’ergastolo per Carlo e Vito Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Curcio che si è tolto la vita impiccandosi in cella nel 2013. Carmine Venturino sconta venticinque anni perché ha deciso di collaborare mentre Giuseppe Cosco viene assolto “per non aver commesso il fatto”.
Da allora Denise vive sotto protezione e nel più completo anonimato.
Lea Garofalo per lo Stato non è una vittima di mafia, perché per problemi burocratici non è stato applicato durante il processo l’aggravante di associazione a delinquere di stampo mafioso.
(*) ‘Ndrangheta: dal greco άνδραγαθέω (andragathòs) composto dalla matrice semantica delle parole άνήρ (anèr) e άγαθός (agathòs), che significa letteralmente «agisco da uomo perbene e valoroso». (Dal Vocabolario Greco- Italiano di Lorenzo Rocci)
È una organizzazione criminale calabrese, definita “liquida” per il potere di penetrare in ogni ambito, in maniera invisibile, estendendosi ben oltre il territorio calabrese. Essere ‘ndranghetista significava essere un “membro della Onorata Società”, un uomo capace di proteggere e far rispettare il proprio onore.
Ha una struttura interna formata da due livelli:
Formano in tal modo le “cosche” che con il loro legame danno vita al “locale”, l’organo di aggregazione territoriale per la cui costituzione bisogna raggiungere un certo numero di affiliati, comandato dalla “copiata” generalmente costituita dal capobastone, dal contabile e dal capo crimine.
La famiglia ‘ndranghetista si definisce “’ndrina” ed è basata sul legame di sangue, sancita con riti di battesimo, simboli e regole, che comprende parentele naturali e acquisite. La sua forza è rinsaldata dai matrimoni incrociati tra famiglie e dall’inserimento di parenti acquisiti nelle attività illecite che portano avanti, tutelandosi in tal modo da eventuali tradimenti. Protraggono in tal modo la logica delle faide che continuano a contraddistinguersi per la ferocia delle loro azioni.
In questa organizzazione, però, non ci sono donne perché la loro è una struttura patriarcale. Nonostante questo, hanno però in comune donne che li hanno partoriti e che hanno trasmesso loro la cultura e il codice ‘ndranghetista.