A VIRGINIA WOOLF – Persepoli (Persia) 30 marzo 1927
I falchi volteggiano fra le colonne spezzate, le lucertole sfrecciano sulla soglia del Palazzo di Dario; Persepoli troneggia dalle sue alture. Ho guidato un’automobile per oltre millecinquecento chilometri di Persia, la settimana scorsa. Sono sporca, cotta dal sole, sto bene. Ci siamo alzati ogni mattina all’alba, e siamo andati a letto (per terra) alle 20.30. Abbiamo dormito in capanni abbandonati, acceso fuochi di legno di melograno e di sterco secco di cammello; bollito uova; perso ogni senso della civiltà; siamo tornati nello stato primitivo in cui si pensa solo al cibo, all’acqua, al sonno. Ma non immaginare che avessimo solo acqua, da bere; no davvero; ci portiamo una damigiana di vino da Shiraz, e anche se ci capita di rinunciare ai letti (come il primo giorno, quando la Ford con i bagagli ha avuto un guasto e abbiamo sparpagliato camicie e teiere per la strade di un villaggio persiano), alla damigiana non rinunciamo. Ci alziamo all’alba, viaggiamo in macchina tutto il giorno attraverso gole e pianure, al calar del giorno arriviamo da qualche parte, srotoliamo il nostro piccolo accampamento sempre più ridotto, e ci addormentiamo. Ottima vita, Virginia. Ora (dato che quando ho cominciato questa lettera, a Persepoli, ho proseguito) ho visto Shiraz, un posto assurdamente romantico, sono ripassata da Sivand, dove ho dormito, una valle piena di fiori di pesco e caprette nere, e sono ritornata a Isfahan, dove ci aspettava la posta e una lettera tua. (Ma prima che risponda, ti prego di non immaginarti che questa vita svolazzante e libera attraverso la Persia sia in qualche modo una vita romantica; no; l’idea che si sfugga al materialismo è un’idea sbagliata; al contrario, dalla mattina alla sera il pensiero dominante è: abbiamo fatto bollire le uova abbastanza a lungo? Ci rimane abbastanza bromo? Chi ha lavsato i piatti stamattina, visto che non l’ho fatto io? Chi ha messo via l’apriscatole, perché se nessuno ci ha pensato, è andato perduto? Lungi dal trovare una liberazione dello spirito, si diventa schiavi delle cose pratiche).
Comunque però tesoro mio, ho trovato una tua lettera. Era là (adesso ho preso dai bagagli l’inchiostro per caricare la penna). Siamo arrivati in cima al passo, siamo scesi su Isfahan, con le sue cupole azzurre, e al Consolato c’era il nostro sacco postale pieno di lettere. Non vai più in Grecia ma a Roma. Roma non ti piacerà, con i suoi tram sferraglianti, ma ti piacerà la campagna. Vai in campagna più che puoi, lascia che le tue frasi si intonino alle nuvole, e pensa a me. Sono appena andata a cena con un giovane persiano, innamorato di me; che creatura deliziosa, l’ho conosciuto l’anno scorso, declama magnificamente la poesia persiana. Questa lettera è continuamente interrotta, ma ti amo, Virginia, ecco, e le tue lettere peggiorano la situazione. Sei contenta? Voglio tornare a casa, da te. Ti prego, quando sei nel Sud, pensa a me, e a quanto ci divertiremmo, divertiremo, se ti attieni al progetto di venire all’estero con me in ottobre; il sole, i cafés tutto il giorno e tutta la notte. Tesoro mio… Per favore fa che si avveri.
Vivo per questo.
Ti danno veramente il premio «Femina»? E l’Hawthornden. Ti ricordi la nostra scommessa? Che spasso. Sì, scriviamo sulla solitudine. Stranamente, con la stessa posta, ricevo pagine e pagine di Ethel Smyth, in gran parte sullo stesso argomento, la solitudine. Anche a lei piace.
Che scarabocchi. A lume di candela. La macchina parte alle 4, domattina, per Teheran. Sono in un curioso stato di eccitazione, dovuto soprattutto alla tua lettera, mi devasta sempre, leggerti. Dio, ti amo proprio. Dici che non uso vezzeggiativi. Mi sembra divertente. Io che mi sveglio nell’alba persiana, dico a me stessa «Virginia… Virginia…»
Nella mia stanza a Shiraz c’era il Common Reader, è stato un colpo.
Senti… verrai a Long Barn, Ver? Appena rientro? Se prometto di tornare sana e salva? Sarò dolce con te più di quanto lo sia mai stata prima in vita mia.
Tua Vita