"La scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza: è un'attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza" - Simone De Beauvoir
DIARIO DI UNA DONNA

DIARIO DI UNA DONNA

SIBILLA ALERAMO – 8 Aprile 1945

Quando rieso a tenere a freno la sofferenza, a non stemperarla in pianto, compio una bravura che mi lima, che fa della mia vita sotterranea un’usura spaventevole. Vita sotterranea, doppia vita, in me che son di natura semplice, trasparente, aerea. Questo andar fra la gente con una parvenza di sorriso, come l’immagine stessa della serenità! è sempre stato il mio destino, dal tempo remoto dal mio matrimonio, quando dovetti, con un’operazione istantanea, e incredibile in una sedicenne, reprimere il mio carattere impetuoso e indipendente, e piegarmi, silenziosa e mite, al giogo, che non era neppure giogo d’amore. È vero che in quegli anni, specialmente dopo l’intermezzo tragico del tentativo di ribellione e del tentativo di suicidio, si andò in me formando una coscienza più fonda, una interiorità più vasta e più lucida, quella specie di intermittente veggenza che ha dato poi valore d’assoluto a tutti i miei atti, anche a quelli che parvero incomprensibili o biasimevoli. Quegli anni, quegli anni! Da quando ne avevo sedici a quando ne compii venticinque. Temo ancora pensando alla concentrazione solitaria di quella mia anima giovinetta, senza l’ausilio di una fede ultraterrena, senza pratiche religiose, senza voce viva alcuna accanto. Solo ausilio, qualche libro, che il caso, o diciamo il destino, mi faceva capitar fra mano… Nessuno mi sorprendeva a piangere. Quel grande giardino, l’ultimo anno prima di lasciar mio marito e mio figlio… Quella messe di rose, a maggio. Quel folto di stelle, ad agosto. Sola, sola, più che se fossi stata in un chiostro. Concentrazione, meditazione, e la speranza, e la disperazione che insieme mi danzavano in petto, speranza per le sorti umane, disperazione per la sorte mia… Lucidità, ho detto? Veggenza? Ma è stata contraddizione, allora, è stata illusione, quella per cui dopo, per oltre quarant’anni, fino a oggi, ho vissuto cercando di vincere il mio fato? Come se l’orrore astrale di quelle sere silenziose sotto il firmamento mi avesse per sempre inoculato nelle vene, di là dalla coscienza, il sogno stringente di non essere “deserta”, di sentire vicino a me la vibrazione di un’altra anima… Questo lungo ponte, da allora, pericolante sopra l’abisso, le mie braccia che si tendono e stringono l’ombra, la mia voce, qualcuno l’ode, ma non vale, non vale, ed ecco la solitudine è altrettanto totale, ma fra quattro mura, senza fiori né costellazioni, una cosa soltanto non è andata perduta, ancor credo che la natura umana imparerà un giorno l’amore e la gioia, ancor io credo oggi che d’amore e di gioia il mondo è privo come non mai…

Lo guardo, questo mondo, come guardavo il mio bambino in fasce quando piangeva. Lo stringevo al petto, che cosa gli mormoravo per calmarlo? Le mie non erano parole per lui, erano soltanto suono, canzone sommessa…

Come un infante, il mondo. Irresponsabile. Ora piange, si duole, altro non sa, altro non può. Crescerà?

Quando io lo lascia, il mio bambino non era più in fasce, camminava, parlava, sorrideva, ma forse io sentivo già vagamente ch’egli mai sarebbe divenuto interamente uomo, forse già sapevo che l’era umana in cui credevo, egli non l’avrebbe conosciuta…

Oggi so che neppure i suoi figli la conosceranno…

Lontana, ancora così lontana!

Ma ancora vi credo, sempre più vi credo.

Vi sono ore, come in questo pomeriggio piovoso, in questa grigia soffitta, ove nulla per me attendo, ove potrei, da un istante all’altro chinare per sempre il capo sul tavolo, e niuno lo saprebbe se non fra qualche giorno, vi sono ore in cui la visione del remoto avvenire del mondo mi splende dinanzi, così certa!

Avvenire non soltanto senza più guerre né odi, ma di intima pace per tutti i cuori. Intenti, i cuori a creazioni meravigliose, emule delle stelle, fra e delle rose, senza affanno, senza fretta, fra lunghe sognanti pause, lunghi colloqui senza parole con lo spirito dell’universo…

Questo nostro tormento, questa nostra esistenza da caverna, questo nostro tragico balbettio, questi smarriti sguardi nel vuoto, questo brancolare impotente, e anche anche questo raro lampeggiar di grazia quale appare sul volto d’un neonato, ne verrà ad essi tramandato il ricordo, come a noi certi segni dell’età della pietra?