Domitila Chungara
(Llallagua 7 maggio 1937 – Cochabamba 13 marzo 2012)
Figlia e moglie di minatori, rivoluzionaria, combattente, femminista, segretaria del Comitato delle Casalinghe Siglo XX, con le sue lotte è stata in grado di rovesciare la dittatura che stava sterminando la popolazione boliviana.
Domitila nasce in una famiglia di umili origini. Suo padre è un campesino e allevatore di pecore prima che venga inviato nella guerra con il Paraguay. Al suo ritorno trova tutti gli animali morti e un paese che versa quasi nella povertà. Parte per andare a lavorare nella miniera Siglo XX con l’intenzione di guadagnare un po’ di soldi per comprare altre pecore e tornare al suo villaggio ed è li che conosce la moglie ed è in una miniera che Domitila nasce.
Prima di cinque figlie, all’età di 10 anni è costretta, a causa della morte della madre per un parto cesareo andato male, ad occuparsi delle sorelle e a lavorare lei stessa in miniera dove raccoglie e polverizza con le mani nude le rocce residue dell’industria mineraria al fine di trovare minerali. Suo padre insiste perché Domitila studi, legga e si acculturi e prega il preside della scuola di darle il permesso di frequentarla accorgendosi da subito delle disparità e discriminazioni a cui la sua gente era soggetta: su 100 alunni 80 erano uomini e 20 donne e nessuna era figlia di minatori.
Domitila vive con il padre e le sue quattro sorelle prive di tutto ed è lei a occuparsi di loro. Si ritrova così ad andare a scuola e a tornare ogni giorno a casa per dar da mangiare alle bambine, la più grande delle quali ha poco più di un anno e l’ultima pochi mesi. Suo padre, attivista politico, un giorno le comunica che va via su commissione e che se non basta ciò che lascia in dispensa, ci sono i soldi per comprare altro. Nei giorni a venire Domitila si rende conto che qualcosa sta accadendo: le strade sono deserte, le donne sedute nella strada piangono perché a causa della guerra in Bolivia i loro uomini dovevano andare a lottare. Ma poi si sentono suonare le campane, le sirene e la gente scende in strada gridando alla vittoria: è la rivoluzione popolare del 1952 del Movimento Nazionalista Rivoluzionario. Uno dei momenti più felici, prima della fine della dittatura, per il popolo boliviano. Diritto di voto per tutti, alfabetizzazione di massa, riforma agraria e divisione giusta della terra, nazionalizzazione delle miniere, creazione della Centrale Operaia Boliviana, sono parte di questa trasformazione storica.
La gente aspetta l’arrivo dei minatori che non si fanno attendere molto ed entrano nel distretto con i loro brillanti attrezzi. Domitila tra i tanti che sfilano ritrova suo padre con il suo fucile incrociato e capisce che è tornato per restare. Come succede a molte ragazze che vivono a Siglo XX, anche Domitila si sposa con un minatore consapevole che il lavoro in miniera è il più sfruttato ma anche il più diffuso e che le donne vivono come i mariti le stesse ristrettezze senza potersi sottrarre alla loro sorte di oppresse.
Scopre che nel distretto di cui fa parte, le miniere sono amministrate dalla COMIBOL (Compagnia Mineraria Boliviana), che l’alloggio è prestato al lavoratore solo per il periodo in cui il minatore lavora nell’impresa, che nelle case non c’è il bagno, manca l’acqua potabile e la luce viene erogata qualche ora al giorno. Insomma tutte le promesse fatte non erano state mantenute e il popolo si trovava sempre più in condizioni di povertà.
Nel 1963 il governo boliviano si consegna completamente al Fondo Monetario Internazionale e le richieste del popolo non vengono più rispettate. I minatori si rendono conto che hanno affidato il potere a un governo che elabora i suoi piani e la sua politica attraverso l’ambasciata degli Stati Uniti. Decretano la “stabilizzazione economica” attraverso l’adozione di una nuova moneta, peso, che vale 1.000 boliviani, misura monetaria precedentemente in vigore, e che con la nuova valuta raggiunge la parità di $ 1 = pesos 11,88.
Elaborano il “Piano triangolare” insieme a Stati Uniti, Germania Federale e Banco Interamericani de Desarrollo, che prevede il riassestamento del settore minerario nazionalizzato e che implica, tra le altre cose, la riduzione del numero dei minatori, il congelamento dei salari, il totale controllo dell’attività sindacale, la soppressione del Controllo operaio con diritto di veto. A queste misure antipopolari nelle miniere i lavoratori rispondono con proteste, manifestazioni, scioperi e accanto a loro ci sono sempre le loro mogli molte delle quali vengono arrestate, interrogate, messe in galera e che a volte perdono anche i loro figli solo perchè lottano al fianco dei loro compagni.
Con la consapevolezza che è la partecipazione del compagno e della compagna insieme a essere la forza per un futuro migliore, Domitila inizia a frequentare assiduamente il Comitato delle casalinghe di Siglo XX, organizzazione di donne che è rappresentata sia nella Federazione dei minatori che nella Centrale operaia boliviana, che fa sentire sempre la sua voce e segue con attenzione gli obiettivi che i lavoratori si propongono.
Per dirla con le sue stesse parole:
“Perché la nostra posizione è diversa da quelle delle femministe. Noi crediamo che la nostra liberazione passa innanzitutto per la liberazione del nostro paese dal giogo dell’imperialismo e per la presa del potere da parte degli operai, perchè le leggi, l’istruzione, tutto sia controllato da noi. Allora sì che avremo le condizioni per una liberazione completa, anche dalla nostra condizione di donne. […] Perchè se la donna continuerà a occcuparsi soltanto delle faccende di casa e a ignorare gli altri aspetti della realtà, non avremo mai dei cittadini in grado di dirigere il paese. Perché la formazione comincia dalla culla. E se consideriamo il ruolo fondamentale che ha la donna, come madre che deve fornire i futuri cittadini, è chiaro, se non è all’altezza, che formerà soltanto dei cittadini mediocri, facilmente manovrabili dal capitalista, dal padrone. Se invece è politicizzata, ed ha una formazione, fin da piccoli i suoi figli li educherà con altre idee e quindi saranno un’altra cosa.”
Con queste idee Domitila inizia la sua lunga lotta all’interno del Comitato e la sua persecuzione politica affrontando le forze repressive di diverse dittature. Nel 1967 viene accusata di essere un agente di collegamento con la guerriglia e viene portata in prigione dove a causa delle torture che subisce perde il figlio che aspettava che appena nato muore in una cella sporca, senza aiuto e vittima dei calci e dei colpi dei soldati che l’hanno arrestata.
In seguito viene mandata al confino insieme alla sua famiglia a Los Yungas dove con i pochi soldi rimasti comprano una casetta e un pezzo di terra da coltivare. Qui è tutto diverso a partire dall’altitudine molto più bassa e quindi con un clima troppo caldo per lei che ha sempre vissuto in alta montagna, e poi c’è la mancanza di carne alla quale non riesce a sopperire e altre necessità che marito e figli continuano a manifestare.
Domitila fa molti sforzi per cercare lavoro e questo le permette di scoprire la bontà della gente di Los Yungas ma anche di iniziare a dubitare della sua militanza nel Comitato fino a quando suo padre non le porta dei libri di storia della Bolivia e del socialismo presi alla biblioteca dell’università. Le annotazioni che Domitila trova a margine di alcune pagine, scritte appositamente per lei da una professoressa, le fanno prendere consapevolezze che le idee che lei ha sono molto simili a quelle riportate nei libri. Era come se qualcuno avesse raccolto i suoi pensieri e i suoi ideali e li avesse trascritti in un libro. Ciò incoraggia Domitila a continuare la sua lotta e a scoprire un’altra realtà del suo paese che è quella della campagna dove il dominio del governo è molto forte. Inizia da subito a costruire una scuola con l’aiuto della popolazione e si rende subito conto che il governo se ne prende il merito vantandosi di mantenere le promesse fatte. Si rende conto di come sia sbagliata l’idea che la liberazione della Bolivia si possa fare soltanto contando sulla classe operaia, escludendo le altri classi come quella contadina, e arriva alla conclusione che bisogna lottare contro questi governi ingiusti, che la forma più efficace di lotta è elevare il livello di coscienza della gente e lottare per liberare il suo paese dal giogo imperialista.
Nel 1970, in seguito a un contro colpo di stato da sinistra, sale al potere Juan José Torres, che per sua origine ed etnia sembra essere vicino alle rivendicazioni del popolo. Accoglie da subito la richiesta degli operai di avere il risarcimento per il dimezzamento dei salari, voluto dal precedente governo, e per fare questo dimezza gli stipendi di amministratori, tecnici e dirigenti della COMIBOL, restituendo agli operai il dovuto. Domitila è consapevole però che fino a quando il popolo non sarà armato per potersi difendere, l’esercito non sarà mai dalla loro parte e per questa ragione diffida di Torres.
Il 21 agosto del 1971 il generale Hugo Banzer spodesta Torres in un sanguinoso colpo di stato guidato dalla Giunta dei Comandanti delle Forze Armate e inizia così un periodo in cui costantemente vengono violati i diritti umani uccidendo, in patria e all’estero, numerosi oppositori, o presunti tali. Vengono emananti una serie di decreti contro la popolazione e viene portata avanti una politica economica incentrata su un forte indebitamento con organismi internazionali a beneficio di una ristretta gerarchia di alleati politici.
Nel 1974 l’ONU incarica una cineasta brasiliana di fare una ricerca sulle donne che in America Latina hanno capeggiato delle lotte, sulle opinioni che hanno in merito alla loro condizione e sulla loro partecipazione al processo di emancipazione della donna. In Bolivia il suo riferimento è il Comitato delle Casalinghe di cui ha sentito molto parlare all’estero. Con l’autorizzazione del governo si reca a visitare gli accampamenti minerari di Siglo XX e qui incontra Domitila con la quale intesse una lunga conversazione alla fine della quale la cineasta dice a Domitila che è importante trasmettere la sua esperienza al resto del mondo e che l’occasione migliore per farlo è un congresso di donne che si svolge in Messico per celebrare l’Anno Internazionale della Donna.
Domitila partecipa come rappresentante del Comitato delle Casalinghe di Siglo XX e li si fa conoscere scuotendo il congresso con la sua prospettiva politica, poco considerata da buona parte delle partecipanti, della lotta di classe. Denuncia che la Magna Carta delle Nazioni Unite, firmata anche dalla Bolivia, nel suo paese viene applicata solo dalla borghesia e che la lotta delle donne non può essere fatta contro gli uomini ma deve essere fatta contro il sistema di dominio dei popoli. Per Domitila il cambiamento deve avvenire attraverso la parità dei diritti, la parità di accesso all’istruzione e al lavoro, intraprendendo una lotta di coppia contro l’oppressione e il dominio capitalista.
Il giorno in cui si ritrovano a parlare le donne contro l’imperialismo, anche Domitila interviene in rappresentanza delle donne boliviane, rendendo noto come loro sono un popolo che vive in totale dipendenza dagli stranieri, come questi paesi impongono loro ciò che vogliono, sia dal punto di vista economico che culturale. Alcune donne provano a fermarla per farle presente che bisogna parlare dei problemi delle donne e smetterla di occuparsi di politica; altre vogliono imporgli lo slogan dell’Anno internazionale della donna “Uguaglianza, sviluppo, pace”. Alla presidentessa della delegazione messicana che la invita a parlare di loro in quanto donne dimenticando le sofferenze del suo popolo, Domitila risponde così:
«Va bene, parliamo di noi due. Se mi permette comincio io. Signora, è una settimana che la vedo. Ogni mattina lei arriva con un vestito diverso, e io no. Ogni giorno lei arriva truccata e pettinata come chi ha tempo e soldi per andare da un parrucchiere elegante, e io no. Vedo che lei ogni pomeriggio ha un autista con un’automobile che l’aspetta fuori per portarla a casa, e io no. E per presentarsi qui come si presenta, sono certa che vive in una casa elegante, in un quartiere elegante, vero? Invece noi mogli dei minatori abbiamo solo un minuscolo alloggio in prestito e quando nostro marito muore o si ammala o lo licenziano, ci danno novanta giorni per lasciare l’alloggio e finire in mezzo alla strada. Ora, signora, mi dica: cosa c’è di simile tra la sua situazione e la mia? Allora di quale uguaglianza dobbiamo parlare noi due? Io e lei non ci somigliamo, io e lei siamo diversissime. Non possiamo in questo momento essere uguali, nemmeno come donne, non le pare?»
Al suo rientro Domitila trova una situazione completamente cambiata: dirigenti della Centrale operaia boliviana arrestati, sciopero di operai della Manaco (fabbrica di scarpe della Bata), di universitari e vari settori contadini. Dopo varie consultazioni, viene deciso di organizzare un Congresso per presentare globalmente le loro richieste, ma la repressione che avviene subito dopo cancella tutte le aspirazioni dei partecipanti.
Stanche di tanta persecuzione e repressione un giorno del 1977, alcune donne, tra cui Domitila, iniziano uno sciopero della fame nell’arcivescovado di La Paz con lo scopo di chiedere, tra le altre cose, l’amnistia al governo Banzer per tutti i prigionieri politici, il rilascio dei leader dei minatori arrestati, il ritorno alla democrazia attraverso libere elezioni per tutti.
Domitila perde tutto, famiglia, casa ed è costretta all’esilio in Svezia, da dove continua a denunciare le ingiustizie di minatori e contadini, promuove iniziative di lotta per la democrazia e la partecipazione delle donne. La pressione sociale e internazionale che lo sciopero della fame ha sortito, seguito da migliaia di cittadini in tutto il paese, costringe Banzer ad accettare l’amnistia dando così inizio alla rottura dell’egemonia della sanguinosa dittatura militare.
Domitila rientra in Bolivia e inizia la sua attività di insegnante nelle scuole di formazione politica e sindacale perchè, come ha sempre sostenuto, la cittadinanza deve studiare per combattere la propria paura e rafforzare la volontà di combattere e vincere, fino alla fine dei suoi giorni.